Non sono avvezzo a parlare di me, non l’ho mai trovato importante. La fotografia è per me un rifugio e quanto in me si agita o s’acquieta, è lì che prende forma. Né ho mai trovato le giuste parole per spiegarle, quelle immagini, innumerevoli e sovrapposte come pensieri e ricordi che si rincorrono e s’intrecciano con apparente casualità. Ho sempre pensato – ma ancora credo – che l’identità del linguaggio fotografico non abbia ulteriori necessità per motivare sé stessa. Il grande Ansel Adams dice che la fotografia è come una barzelletta: se la devi spiegare vuol dire che non è venuta bene; gli fa eco un altro maestro, Erwitt: “Il punto principale di scattare foto è di non dover spiegare le cose con le parole”.
Nondimeno, mi rendo conto che qualcosa dovrò pur dire… e mi affanno a trovare le parole più giuste per non venir frainteso e al tempo stesso lasciare all’osservatore la libertà di perdersi, se crede, in mondi che non sono il mio. Ma questo immagino accada con ogni forma d’arte; spunti che l’autore ci consegna attraverso la sua opera, chiavi di lettura che, nel mio caso, sono giocati sugli elementi nel fotogramma, e gli equilibri e le forme che assumono veste bidimensionale di tutto il mio sentire intimo. La figura femminile è arcano dilemma ed estetica mistica, velata di sofferta malinconia. Mai gli incarnati sono rosei e richiamano, invece, lontane ed inafferrabili tinte di trapasso. Eros e thanatos; più thanatos, allora… ambienti evanescenti, sorta di limbo domestico; giacché care e al tempo stesso estranee appaiono le figure. Figure, è proprio il caso di chiamarle, non persone, libere da legacci o serrate, invece, le membra le une alle altre come quei giochi col nastro che si facevano in epoche spensierate. Qui tutto c’è fuorché lietezza, e forse dovrei dispiacermi, ma sono fatto così. Non è costanza del mio fotografare, ma in ogni genere affrontato, dal ritratto al paesaggio e allo still life emerge comunque, seppur nella bellezza (questo voglio crederlo) irrinunciabile rimpianto per il passato; ed il mio, infatti, è un linguaggio formale, se mi è concesso. Volto, come s’usava in epoche ormai distanti, oltre che allo sgravare l’animo dell’autore, soprattutto a generare la bella forma.